Presentazione ·
Lavori ·
Curriculum ·
Contatti ·
 
 


 

Le immagini di Luisa Raffaelli hanno in sé una forza centrifuga che scompagina l'ordine naturale. Non vi sono tentazioni seriali, ma la realtà appare forzata a mostrare quello che è permanente, dietro le apparenze. L'artista sposta leggermente di segno ogni accadimento naturale, orchestrando gli elementi in modo continuo con una forma narrativa che è fatta di sequenze. La tecnica non è quella dello stravolgimento, dell'immagine di forte effetto emotivo, anche se riesce sempre a mettere insieme un elemento sempre riconoscibile (la donna in fuga) ambientata in situazioni urbane o in claustrofobici interni. Lo spostamento rispetto alla realtà è laterale. Non si avverte un ordine imposto, uno schema che si ripete, ma le situazioni si svolgono a mostrare qualcosa forse di negato e di non completamente accettato.
Questo lavoro ormai ha una temporalità sufficientemente ampia perché si possa parlare di una forma di "quotidiana epicità". La Raffaelli ha inventato un personaggio, una donna dai capelli rossi che infiamma e attraversa scenari urbani o moli abbandonati, derive di una civiltà che produce scarti e illusioni, dove non sembra mai esserci posto per tutti. Spostata dal vento o portatrice lei stessa di una corrente d'aria, di un cambiamento, la donna è sola. Il volto è spesso celato, i capelli sono una copertura per l'anonimato ma anche un segno, un simbolo di colore e di vita. Le avventure della donna (che evidentemente non ha una biografia definita ma rappresenta tutte le donne), che anima le sue foto dagli anni Novanta, sono lo scandaglio di una interiorità che è certamente il riflesso delle attese ed esitazioni dell'artista, ma assume una forma simbolica che però non diventa mai apodittica. In questo sta la scelta narrativa è stata sicuramente la chiave di questo successo, cioè della riconoscibilità di questi lavori e anche del loro spostamento verso delle forme sempre diverse, come degli approfondimenti. La Raffaelli racconta per immagini, il suo è un libro diviso per capitoli. La fuga, il nascondersi, il ritrovare se stessa negli oggetti, negli effetti personali magari solo celati (e raccolti) nella borsa, sono metafora di una condizione di clausura, di un' invisibile prigione da cui tentare di uscire. Sono elementi ricorsivi che scandiscono il tempo protratto dell'azione. Per questo di parlava di un'epica da uomo (donna, in questo caso) qualsiasi, una mitopoietica in cui possiamo entrare tutti noi.
Poi l'artista gioca benissimo sul rapporto tra una sorta di ambiente definito dal colore in modo metallico e ostile e la figura dai capelli rossi che si muove, che cerca, che non trova e non si fa trovare. Prevale non solo il contrasto tra la scena e la protagonista, ma anche l'idea che tutto sia comunque in movimento, un falso movimento. Ma è questo probabilmente il fine del tutto, muoversi cercando un improbabile centro di gravità permanente.
Movimento e assenza di peso, su queste coordinate fisiche e sui loro risvolti psicologici, si muove il lavoro di Luisa Raffaelli che recentemente ha aggiunto anche una serie di lavori dedicati alla natura, agli alberi, all'ambiente. Gli alberi levitano nello spazio, fuggono dalla terra in un moto anche questo centrifugo quanto decisamente ascensionale. Una fuga, un allontanamento, quasi la ricerca di un altro spazio più proficuo, migliore, più adatto alla vita. La donna e gli alberi diventano nella sineddoche, una sorta di principio vitale che si sparge nel mondo, che fugge alla ricerca di una situazione ideale. La natura non è dolo testimone di quanto l'uomo sta disfacendo, è la protagonista di ogni principio vitale, oltre che ambiente per la replica e lo sviluppo. Gli alberi possiedono una forte specularità rispetto alla figura femminile perché spesso possiedono lo stesso colore che si staglia contro il bianco e nero dello sfondo. Vi è non solo un aspetto metaforico ma l'artista sottolinea qualcosa di più biologico in comune. Il contrasto tra il primo piano e l'ambiente circostante amplifica in modo semiotico il messaggio, connotando la diversità, l'unicità. Il bianco e nero, il non colore sono emblemi di un anonimato e di una piattezza che sconfina con il brutto. La qualità vitale del colore appartiene in particolar modo alla natura che in questo caso rappresentata dal suo emblema, l'albero, possiede le stesse caratteristiche di sradicamento della donna. Le piante tagliate lasciano la terra, si liberano del peso portato, delle radici. Vi è la stessa ansia di libertà o di liberazione della donna dai capelli rossi, ma in un certo senso la tensione (non solo visiva) si sposta nel paesaggio. Se la figura femminile calpesta per lo più le periferie della realtà, gli alberi compiono una vera e propria ascensione. Liberarsi vuol dire mutare di stato, da quello solido ad un altro gassoso. Il movimento trasversale, scomposto della donna, l'instabilità che sconfina con il pericolo insito nei suoi scomposti spostamenti, nel caso dei vegetali diventa vettoriale e più sicura, pur non diventando mai lineare o prevedibile.
Se i simboli di positività vengono agitati da delle correnti ascensionali, vuole dire che non si calca la mano sulla scomparsa di qualcosa, ma sul movimento che denuncia un instabilità. E' importante la ricerca, forse random, e non sufficientemente direzionata. La Raffaelli in questo modo evoca un altrove, che esiste o deve esistere a partire da questo momento. La fisicità così forte nei suoi lavori ha il senso di qualcosa che appartiene continuamente alla Erde heideggeriana, ma se ne vuole distaccare, andando verso la luce, l'aria. L'artista torinese non appesantisce mai i suoi lavori di simbologie e di orpelli, riesce sempre ad essere icastica e a dare una chiave narrativa, al recit che ha creato. Per questo il suo romanzo va avanti e si arricchisce di nuovi capitoli, perché è una narrazione infinita, un work in progress di cui non attendere la fine, ammesso che ce ne possa essere una. Che andrà avanti per sempre perché il vento che agita la protagonista e gli alberi, mai troverà requie.
Valerio Dehò 2012

Caos… quello che percepisci, silenzioso e strisciante, nelle atmosfere ipertrofiche di Luisa Raffaelli. Forse millenaristico, apocalittico, definitivo… o forse il normale delirio di cui ormai non ci accorgiamo se non con nuove percezioni visive… comunque un caos che si insinua sotto maschere mimetiche, avvolge il quotidiano, i corpi, le forme del vestire, il design d’interni, le strade… Un caos vitale, comunque lo si veda. Che nulla condivide con un altro caos, quello di una bulimia propositiva (la figurazione odierna) dove gli approcci irrisolti confondono la visione al fruitore debole. Un caos da cui sempre meno artisti riescono a tirarsi fuori. Incapaci di alimentare un archetipo di salvataggio (chiamiamolo anticaos) che sia ben congegnato per forma e impianto teorico. La Raffaelli mi sembra, invece, sulla giusta via, facendo un’arte che vive di caos (interno ai temi e modi narrativi) e anticaos (interno alla grammatica): il primo (caos) di carattere connotativo, gestito come regolatore che alimenta la visione; il secondo (anticaos) di carattere denotativo, diviso tra sintesi, riconoscibilità e coerenza. Dal bilanciamento finale risulta una pienezza armonica, un processo entropico che delinea immagini dense. Opere funzionanti, per capirci. A voi scoprirle, possibilmente senza caos.
Anticaos… antidoto naturale che alcuni artisti detengono per spontanea attitudine creativa. Materiale resistente di uso complesso, adatto per combattere vari malanni figurativi. Elemento che non si compra nè inventa. Vive in relazione diretta col caos gestibile. Quando funziona in chiave creativa, non presenta alcuna scadenza temporale.
Luisa Raffaelli ci trasferisce in un giorno di ordinaria follia urbana, tra accenni implosivi e antagonismi agonistici, movenze straordinarie, paura premurosa e senso d’attesa prolungata, posture in timida difesa o decisivo attacco. I contesti sono stanze mirabili o città che pulsano per sangue caldo e adrenalina montante. Una donna (più di una, più mascheramenti, più modifiche della stessa figura?) domina la singola scena, ha capelli rossi, abiti scelti con gusto contemporaneo, accessori altrettanto adeguati allo stile generazionale. Sembra sul punto di massima tensione emotiva, non ne capiamo la ragione apparente ma qualcosa si condensa nell’atmosfera che la circonda. Lei è la nostra donna rossa, una femmina sensuale con abiti dal design elaborato, gonne sbuffanti, sandali e décolleté dal tacco alto, biancheria fetish, corpetti e maglie trasparenti, giacche di taglio sartoriale, abiti di scuola giapponese, accessori e gioielli ben abbinati. Vive nel perfetto contrasto tra il suo vestire e un ambiente di caos vigile. Sembra caduta da un altro pianeta sopra luoghi che la respingono mentre lei reagisce, spinge per liberarsi, corre, cerca aiuto, resiste fisicamente. Vorrebbe uscire dall’inquadratura, magari salvarsi da sguardi morbosi. Sta lì ad incriminare inconsciamente il nostro voyeurismo. Di certo ha un futuro, anche se indecifrabile con gli strumenti del rapporto causa/effetto.(...)
L’artista è la protagonista in scena? Giunti a questo punto, toccato il rapporto tra individuo e proiezione collettiva, sembra superfluo specificare l’identità in campo. Perché Lei, chiunque sia fuori dalla manipolazione digitale, rimane l’archetipo raggiunto di una condizione dubbiosa, impaurita, ferocemente debole (e proprio per questo solida) nel suo status quotidiano. Non più una donna ma la Donna che racconta condizioni interiori. Una viaggiatrice coraggiosa, autobiografica. Un’artista. E questo, almeno per oggi, può bastare al nostro sguardo.
Gianluca Marziani, 2005

I personaggi femminili di Luisa Raffaelli abitano da soli, in stanze sovrarredate organizzate come set eccessivi. Tutto si fa sgargiante, mosso da neon e nastri che volteggiano nella notte. Sotto il lavoro registico dell'artista la realtà viene selezionata, ricombinata e in ultimo contraffatta:Le donne di Luisa Raffaelli non premono sullo spazio ,non sono vincolate al tempo così come accade nella realtà:A loro si aprono impercettibili possibilità atletiche e di congelamento a mezz'aria .Vengono sospinte da venti immaginari ,elettrificati e lentissimi.(…)Luisa Raffaelli si muove tra le quinte della mise-en scéne ,protagonista assoluta, soggetto e oggetto, dove l'aspetto performativo perde però il carattere narcisistico e autoreferenziale,diventando il corpo stesso soltanto una matrice per descrivere l'intero sociale. Negli ultimi sviluppi della sua ricerca sull'immagine, lavora attraverso una tecnica di fotopittura digitale che punta sull'effetto iperreale e straniato della scena.
Prima dell'immagine definitiva, come di consueto, c'è un'interessante fase preparatoria, la costruzione di un set tra cinematografico e letterario in cui la figura femminile si muove in ambienti tra reale e immaginario, spazi un tempo vuoti e oggi riempiti di elementi che ne connotano ulteriormente la qualità narrativa.
Luca Beatrice, 2004

Fotografie, installazioni, video. Un percorso, quello di Luisa Raffaelli, che già nella pluralità dei media impiegati, sembra ambire ad una sorta di moltiplicazione, di delirio, di onirismo immaginativo.
E' un'epica notturna dell'ambiguità e della metamorfosi, quella che domina, qui, un po' come in "Finnegans Wake" di Joyce: è il mito di una morte e di una rinascita universale, che si impone e in cui ogni figura sta al posto di tutte le altre e ogni regno (umano, vegetale, minerale) si confonde con tutti gli altri.
Solo nel sogno (o nell'"appeal" pubblicitario), del resto, gli ordini dell'universo si collegano, si fondono, si amalgamano: le situazioni spazio-temporali si fanno fluide, i simboli ambigui, i sensi deviati. Ed è su questa idea di immensa copulazione di metamorfosi infinita, di libera associazione che la Raffaelli mette in scena i suoi soggetti.
Figure, logicamente, che crescono oltre i loro ambiti istituzionali, si dilatano, "si pervertono", come si può rilevare nel lavoro Flying in the wind, dove un corpo femminile volteggia nell'aria in mezzo all'involversi delle foglie, ma anche dove lo stesso corpo introduce la nozione di incrinatura, di perdita, di scacco: esso, infatti, pare faticare a liberarsi del suo peso, della sua carnalità, tentare invano di farsi spazio, celeste transito, denunciando come il suo trapasso rimanga sospeso, incompiuto. La polivalenza lo possiede, ma, in qualche modo lo appesantisce, lo opprime. In altre immagini (spesso titolate The fall) la figura fa addirittura l'esperienza della caduta (della decadenza), conosce la sconfitta di Icaro, la fine dell'avventura, la dissoluzione della propria unità, in quanto "perde" letteralmente la testa, il busto, l'essere intero, che rimane presente solo attraverso un gioco metonimico (di oggetti usati come memoria di soggetti).
Se poi si passa ad indagare le installazioni in acetato, veri grovigli di dettagli umani leggeri, inconsistenti, mobili, ci si accorge che essi sono pure apparizioni spaziali, frammenti che risultano fragili, labili, cedevoli, al punto che danno l'impressione di reclinarsi, di piegarsi sotto lo sguardo, come cera sotto il fuoco.
E' il discorso delle apparenze che non tiene (o del segno che si scioglie o anche della magia dell'artificio che si liquefa).
Eppure questa sfiducia nella inalterabilità e univocità delle forme non rimane chiusa in se stessa, non si esaurisce nelle semplice constatazione (o denuncia) di un mondo artificiale. La Raffaelli impiega invece questa artificialità ("questa privazione di corpo, di sostanzialità, di definibilità", come la chiama lei), per suggerire un nuovo modo di guardare il mondo: un mondo, appunto, rovesciato, impensato, se non addirittura grottesco. E' come se la trasparenza (o lo squilibrio) delle immagini non si fermasse nella propria dimensione di negatività, ma aprisse verso l'oltre, la polidimensionalità del reale, le sue infinite prospettive possibili.
Luigi Meneghelli, 2000

 
 
home ·............. credits ·